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Prima individuazione che il codice compie dei giudici non è specifica ma è globale: tendenzialmente giudici ordinari sono coloro che esercitano la giurisdizione civile secondo le norme del cc, salve diverse disposizioni di legge. Ex art 102 comma 1 Cost “la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. Sostanzialmente nel nostro ordinamento i giudici sono diversi, ma che quelli della cui attività si occupa il codice sono soltanto quelli ordinari, ai quali viene attribuita giurisdizione civile.
La giurisdizione assume rilievo non come potere generico, bensì come potere specifico di decidere le singole controversie o cause. Un primo carattere fondamentale della giurisdizione è quello della generalità ex art 1 cpc – 102 comma 1 Cost: “il potere giurisdizionale dello Stato spetta di regola ai giudici ordinari rispetto a tutte le cause” (le cause sono le controversie da risolversi mediante l’attività giurisdizionale); a meno che determinate norme sottraggano certe cause ai giudici ordinari dello Stato per riconoscerle appartenenti a giudici di altri Stati o per attribuirle ad altri organi dello Stato o a giudici non ordinari dello Stato.
Perciò il concetto di giurisdizione si pone essenzialmente come un sistema di limiti alla generale spettanza di tutte le cause civili ai giudici ordinari.
La generalità dell’attribuzione della giurisdizione ai giudici ordinari viene ricondotta al principio dell’unità della giurisdizione.
Tali limiti si riferiscono da un lato ai soggetti/organi diversi dai giudici ordinari italiani, ai quali potrebbero in determinate ipotesi spettare i poteri decisori della concreta controversia, ergo i giudici di altri Stati (ivi compresi gli arbitri che hanno sede all’estero) e gli organi dello Stato italiano che non sono giudici (PA), nonché i giudici italiani non ordinari; dall’altro lato, tali limiti concernono le ragioni per le quali i suddetti poteri decisori dovrebbero essere attribuiti a tali soggetti.
Ex art 5 cpc “la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, restando senza conseguenze gli eventuali mutamenti successivi” -> perpetuatio iurisdictionis.
Limiti della giurisdizione:
Con riguardo alla mancanza di domicilio o residenza in Italia
Nel sistema anteriore alla legge 218/1995, ispirato al criterio della virtuale universalità della giurisdizione italiana, il primo ordine di limiti alla giurisdizione italiana riguardava la qualità di straniero di una delle parti. In virtù della nuova legge, il suddetto criterio della virtuale universalità è stato abbandonato, per fare perno al contrario sul domicilio o sulla residenza del convenuto.
Ex art 16 disposizioni della legge in generale lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti al cittadino a condizione di reciprocità, ergo la legge italiana non preclude allo straniero la giurisdizione italiana.
Perciò, ammesso che lo straniero può farsi attore davanti ai nostri giudici innanzi ai quali il cittadino italiano può essere sempre convenuto, viene in rilievo la posizione del convenuto, rispetto al quale la giurisdizione non è più condizionata dalla cittadinanza, ma solo dal domicilio o residenza.
Altra ipotesi è quella in cui il convenuto sia addirittura uno Stato straniero: la consuetudine internazionale, in omaggio alla sovranità dello stato straniero, esclude che lo Stato possa, in quanto tale, ossia nell’esercizio della sua sovranità, essere convenuto davanti ad un giudice ordinario di altro Stato, pur potendo davanti a quello stesso giudice agire come attore. Fatti salvi i casi in cui lo Stato straniero opera come un normale soggetto di diritto privato.
Escluso dunque il caso particolare dello Stato straniero, la qualità di cittadino o di straniero non è più rilevante agli effetti della sussistenza della giurisdizione italiana, in quanto la legge 218/1995, abrogando gli arti 3-4 cpc, ha eliminato ogni riferimento alla cittadinanza, per riferirsi soltanto al criterio del domicilio o della residenza.
Ex art 2 legge 218/1995 “la giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell’art 77 cpc e negli altri casi previsti ex lege”.
A questa enunciazione segue nello stesso articolo 3, un esplicito richiamo ai criteri stabiliti dalla Convenzione di Bruxelles 1968 in ambito comunitario, con applicazione dei suddetti criteri anche qualora il convenuto non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione (materia civile e commerciale, esclusi stato e capacità delle persone, regime patrimoniale tra i coniugi, testamenti e successioni, procedure concorsuali, sicurezza sociale ed arbitrato), mentre rispetto alle altre materie, la giurisdizione sussiste in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio.
Inoltre l’art 4 legge 218/1995 esplicita il criterio generale per il quale la giurisdizione italiana sussiste se le parti l’abbiano convenzionalmente accettata e tale accettazione sia provata per iscritto, ovvero quando il convenuto non eccepisca nel primo atto difensivo il difetto di giurisdizione. D’altra parte l’art 5 legge 218/1995 esclude la giurisdizione italiana rispetto ad azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all’estero.
Il campo di applicazione della disciplina dettata dalla Convenzione di Bruxelles 1968 è limitato alla materia civile e commerciale e prevede:
Quale regola generale, che tutte le persone aventi il domicilio in uno degli Stati membri possono essere convenute davanti ai giudici di quello Stato, quale che sia la loro nazionalità (art 2)
Quali regole speciali, che le persone domiciliate in uno stato contraente possono essere convenute innanzi ai giudici di altro Stato contraente (art 3-4):
In materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l’obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita
In materia alimentare, avanti al giudice del luogo ove è domiciliato il creditore degli alimenti
In materia di fatti illeciti, innanzi al giudice del luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso
In materia di agenzie o filiali, davanti al giudice territorialmente competente
Quali ipotesi di competenza esclusiva, prevede alcune regole che disciplinano le possibili modificazioni della competenza per ragioni di connessione, garanzia, riconvenzione per ragioni di litispendenza ed infine che disciplinano la possibilità di deroga della giurisdizione, la sua accettazione tacita ed il rilievo del difetto di giurisdizione.
I provvedimenti provvisori e cautelari previsti in uno Stato contraente possono essere pronunciati in quello Stato anche se la competenza giurisdizionale a conoscere del merito appartiene, in forza della Convenzione, al giudice di altro Stato contraente.
Con riguardo alla specialità della controversia in relazione al fatto che sia parte la PA, i giudici amministrativi
Il secondo ordine di limiti riguarda il fatto che una delle parti (tendenzialmente il convenuto) sia la Pubblica amministrazione e si tratti di far valere situazioni diverse dai diritti.
Si dice tendenzialmente il convenuto poiché la PA, quando opera come tale (salvi i casi in cui entra in rapporto di diritto privato con altri soggetti), non ha di regola bisogno di agire in veste di attore, poiché essa per tutelare i propri diritti dispone di strumenti più efficaci della tutela giurisdizionale. Infatti i suoi atti, che si presumono legittimi, sono esecutori e possono essere portati ad esecuzione, anche coattiva, direttamente da parte dei suoi organi.
Perciò l’ipotesi normale è che il bisogno di tutela giurisdizionale si presenti contro la PA, quando accade che questa, con i suoi atti, violi diritti o altre diverse situazioni giuridiche dei privati.
Se la PA con i suoi atti viola diritti soggettivi, essa può essere convenuta davanti al giudice ordinario come qualsiasi altro soggetto giuridico;
Se invece la PA viola altre situazioni giuridiche dei cittadini diverse da diritti soggettivi, ma ugualmente meritevoli di tutela, si allude ai cd interessi legittimi o interessi occasionalmente protetti, i quali trovano solitamente tutela nell’ambito di un giudizio col quale i loro titolari possono ottenere l’annullamento dell’atto amministrativo che lede tali interessi.
Tale annullamento può essere chiesto in quanto l’atto risulta illegittimo perché affetto da uno dei seguenti vizi:
Violazione di legge
Incompetenza (per difetto nell’autorità che lo ha emanato)
Eccesso di potere (potere amministrativo è stato impiegato per fini diversi da quelli in funzione dei quali è configurato dalla legge)
Nel disegno del legislatore del 1865 il giudice ordinario avrebbe quindi dovuto conoscere anche degli interessi legittimi, che sono pur sempre situazioni fondate sul diritto; ma la legge n5992 del 1889 istituì successivamente le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato al fine di provvedervi specificamente.
Attualmente la regola generale prevede che contro la PA i diritti soggettivi possono essere fatti valere davanti al giudice ordinario; mentre gli interessi legittimi possono essere fatti valere davanti a giudici speciali, quali sono i giudici amministrativi.
Per effetto poi di una serie di sentenze della Corte Costituzionale, i Tribunali regionali amministrativi (TAR) hanno assunto il compito di giudicare in primo grado sulle materie già attribuite al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, mentre quest’ultimo è divenuto giudice di secondo grado sulle medesime materie.
Accanto a questi giudici, vanno annoverati altri giudici speciali amministrativi con giurisdizione su interessi legittimi limitata a determinati settori: come, ad esempio, la Corte dei Conti, in materia di contabilità pubblica comprensiva dei giudizi di conto e di responsabilità amministrativa e contabile.
Limiti con riguardo ad altre ragioni di specialità dell’oggetto della controversia: i giudici speciali e le sezioni specializzate.
In relazione ad altre e diverse ragioni di specialità della controversia, l’ordinamento contempla, dando luogo così ad un ulteriore ordine di limiti alla giurisdizione ordinaria, altri giudici speciali con cognizione su diritti soggettivi.
Ex art 102 comma 1 Cost “la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari” ed al comma 2 si specifica che “non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali, ma che possono soltanto istituirsi, presso gli organi giudiziari ordinari, sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini estranei alla magistratura”.
La Costituzione quindi, da un lato, vieta l’istituzione di nuovi giudici speciali, mentre dall’altro, orienta il legislatore, qualora ravvisasse la necessità di giudici tecnicamente qualificati, verso l’istituzione di sezioni specializzate dei giudici ordinari.
Tra i giudici speciali che hanno cognizione anche in materia di diritti soggettivi (ossia su diritti ed interessi legittimi, con una giurisdizione completa ed esclusiva sulle rispettive materie) vanno menzionati: il Consiglio di Stato ed i Tribunali amministrativi regionali, ai quali è stata sottratta a favore del giudice ordinario del lavoro la tradizionale giurisdizione esclusiva in materia di pubblico impiego ed invece è stata attribuita la giurisdizione esclusiva per le controversie riguardanti pubblici servizi, nonché in materia di urbanistica ed edilizia. In questi casi, il giudice amministrativo può disporre l’assunzione dei mezzi di prova esclusi l’interrogatorio formale ed il giuramento e può pronunciare il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica.
Le Sezioni specializzate, invece, menzionate nell’art 102 comma 2 Cost, non sono giudici speciali, ma organi degli uffici giudiziari ordinari, caratterizzati sul piano strutturale dalla loro particolare composizione. A questa categoria appartengono: le Sezioni specializzate agrarie presso i tribunali e le Corti d’Appello in materia di determinazione dei canoni e di proroga dei contratti agrari; i Tribunali per i minorenni in materia di potestà parentale ed istituti connessi, nonché in materia di dichiarazione giudiziale di paternità; ed infine i Tribunali regionali delle acque pubbliche.
Limiti con riguardo alle attribuzioni della PA
Infine i poteri della PA operano come limite all’esercizio dei poteri giurisdizionali dei giudici ordinari, nel senso che i poteri non giurisdizionali della PA escludono i poteri giurisdizionali dei giudici ordinari e viceversa, sicchè può accadere che anche davanti ai giudici ordinari il potere di questi sia contestato proprio sotto il profilo del difetto della sua natura giurisdizionale.
Inderogabilità o derogabilità della giurisdizione e rilevabilità del difetto di giurisdizione
Oltre al carattere della generalità, la giurisdizione presenta anche il carattere dell’inderogabilità convenzionale. Per inderogabilità s’intende l’impossibilità di sottrarre la giurisdizione al giudice ordinario ad opera delle parti d’accordo tra loro, dal momento che, qualora non fossero d’accordo, la parte dissenziente potrebbe utilmente sollevare la relativa eccezione. Chi non solleva l’eccezione, accetta difatti la giurisdizione del giudice difronte al quale è stato convenuto.
Nel nostro codice, la regola dell’inderogabilità convenzionale alla giurisdizione è stata enunciata solo nell’art 2 cpc, in riguardo alla deroga a favore di giurisdizioni straniere, mentre nell’art 37 comma 2 cpc è stato compiutamente disciplinato il meccanismo della rilevabilità d’ufficio o meno del difetto di giurisdizione (ora entrambi abrogati).
Con riguardo alle giurisdizioni straniere, la disciplina che emergeva dagli art 2- 37 comma 2 cpc prevedeva che la giurisdizione italiana non poteva essere derogata a favore di giurisdizioni straniere o di arbitri che pronuncino all’estero, salvo che si trattasse di cause relative ad obbligazioni tra stranieri o tra uno straniero ed un cittadino non residente né domiciliato in Italia e la deroga risultasse da atto scritto.
Tuttavia, l’art 4 comma 2 della legge 218/1995 rovescia completamente la suddetta regola, prevedendo la deroga convenzionale a favore di giudici stranieri e di arbitrati stranieri purchè provata per iscritto e purchè la causa verta su diritti disponibili. Il comma 3 del presente articolo aggiunge che la deroga è inefficace (e quindi permane la giurisdizione italiana) se il giudice straniero declina la sua giurisdizione o se non può conoscere della causa. Dall’altra parte, la giurisdizione straniera poteva e può essere di regola derogata a favore di quella italiana: come risulta dall’art 4 comma 1 legge 218/1995, che preclude al convenuto comparso in giudizio l’eccezione di difetto di giurisdizione non proposta col primo atto difensivo; e come risulta dall’art 11 legge 218/1995 secondo cui il difetto di giurisdizione può essere rilevato, in qualunque stato e grado del giudizio, dal convenuto costituito che non abbia accettato espressamente o tacitamente la giurisdizione italiana, mentre deve essere rilevato d’ufficio, sempre ed in qualunque stato e grado del giudizio, nelle cause che concernono beni immobili situati all’estero o nei casi in cui il convenuto sia rimasto contumace, nonché nei casi in cui la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale.
Se poi il giudice straniero declina la propria giurisdizione o se il provvedimento straniero non è riconosciuto nell’ordinamento italiano, il giudizio innanzi al giudice italiano che fosse stato sospeso prosegue previa riassunzione ad istanza della parte interessata.
Ex art 9 legge 218/1995 in materia di giurisdizione volontaria, la giurisdizione sussiste, oltre che nei casi specificamente contemplati dalla legge ed in quelli in cui è prevista la competenza per territorio di un giudice italiano, quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia o quando esso riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabile la legge italiana. In materia cautelare (ex art 10) la giurisdizione italiana sussiste quando il provvedimento deve essere eseguito in Italia o quando il giudice italiano ha giurisdizione nel merito.
Per quanto riguarda invece i rapporti tra giurisdizioni interne all’ordinamento giuridico italiano (sotto il profilo della deroga e del rilievo del difetto di giurisdizione), ossia ai rapporti tra la giurisdizione dei giudici ordinari e quella dei giudici speciali, nonché ai rapporti con i poteri di altri organi dello Stato (PA), nessuna norma prevede la deroga convenzionale in queste ipotesi; con la conseguente inderogabilità diretta della giurisdizione. La sola norma che viene in rilievo a questo riguardo è l’art 37 comma 1 cpc, che dispone che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario può sempre, senza eccezioni, essere rilevato anche d’ufficio in qualunque stato e grado del processo.
Il regolamento di giurisdizione
In relazione ai limiti della giurisdizione, possono sorgere questioni intorno alla sussistenza o meno della giurisdizione rispetto ad una determinata controversia, le quali devono essere risolte dal giudice adito per il merito, in via preliminare, dal momento che la giurisdizione è un presupposto del processo, anzi il primo dei presupposti processuali, ed il giudice non può decidere sul merito prima di aver riscontrato la sussistenza di tutti i presupposti e degli altri requisiti del processo.
La decisione sul giudice adito sulla questione di giurisdizione può poi essere oggetto di impugnazione in appello e di ricorso alla Corte di Cassazione, alla quale spetta la parola definitiva.
Dal momento che la parola definitiva della Corte di Cassazione può tardare a lungo, il legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico il regolamento di giurisdizione ex art 41 cpc, che consente di sottoporre immediatamente alle Sezioni Unite le questioni di giurisdizione di cui all’art 37 cpc.
La singolarità di questo istituto consiste nel fatto che esso non è strutturato come mezzo di impugnazione (a differenza del regolamento di competenza), in quanto non presuppone una pronuncia, neppure sulla giurisdizione, ma solo una contestazione della giurisdizione; e ciò perché la legge vuole consentire che la pronuncia dell’organo supremo della giurisdizione possa avvenire subito, ossia senza attendere la pronuncia del giudice adito. Per questa ragione, la medesima norma ha previsto un particolare termine di preclusione, stabilendo che tale facoltà può essere esercitata finchè la causa non sia decisa nel merito in primo grado. Il regolamento è precluso da una qualsiasi decisione della causa in sede di merito, con la conseguente esclusione della possibilità di concorso con l’appello.
L’istanza di regolamento non apre un nuovo grado di giudizio, ma apre solo una parentesi che si inserisce nell’ambito del giudizio di primo grado.
La pronuncia sulla giurisdizione appartiene alla sentenza di primo grado, anche se questa parte della sentenza non è più impugnabile; è anzi dotata, come ogni altra sentenza delle Sezioni Unite in materia di giurisdizione, di efficacia esterna, a differenza delle pronunce dei giudici di merito in materia di giurisdizione, che hanno efficacia solo endoprocessuale.
Originariamente l’art 367 cpc disponeva che il giudice davanti al quale pende la causa sospendesse il processo nel momento in cui fosse stata depositata in cancelleria copia del ricorso proposto a norma dell’art 41 cpc. Questa disposizione è stata modificata dalla legge 353/1990 nel senso che la sospensione va disposta solo se il giudice istruttore o il collegio non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata; ed è chiaro che questa modifica ha lo scopo di contrastare i preoccupanti abusi dell’istituto, con la proposizione di regolamenti infondati, al solo reale scopo di provocare la sospensione.
Se la sospensione è dichiarata e la Cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, la causa va riassunta a pena di estinzione nel termine di 6 mesi dalla comunicazione della sentenza della Cassazione.
La proposizione dell’istanza di regolamento è una facoltà soltanto delle parti, che, se non viene esercitata, comporta il normale proseguimento del processo e la pronuncia sulla giurisdizione avverrà secondo le regole ordinarie.
La giurisprudenza della Cassazione era solita ritenere ammissibile il regolamento di giurisdizione anche nei procedimenti speciali, compresi quelli cautelari e d’urgenza, fino al mutamento di indirizzo delle Sezioni Unite manifestato con la sentenza n2466/1996.
Una forma del tutto particolare di regolamento di giurisdizione è infine quella prevista dall’art 41 comma 2 cpc che consente alla PA, che non è parte in causa, di far dichiarare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, a causa dei poteri attribuiti dalla legge all’amministrazione stessa. L’iter per esercitare questo potere è disciplinato dall’art 368 cpc ed è caratterizzato dal fatto che esso si esercita con l’iniziativa di un soggetto che non è parte in causa, ossia l’Amministrazione, impersonata dal prefetto.
Manuale di riferimento:
“Corso di diritto processuale civile,
nozioni introduttive e disposizioni generali” volume 1
di Crisanto Mandrioli,
dodicesima edizione, Giappichelli Editore
Quando si parla di notificazione e di comunicazione, si fa rispettivamente riferimento agli articoli 137 e 138 cpc. A tal proposito, giova ricordare come determinati effetti giuridici di alcuni atti del processo si producano esclusivamente nel momento in cui i soggetti che ne sono destinatari vengono messi a conoscenza della loro esistenza.
Questo ad esempio è il caso dell’atto di citazione, che, ex art 163 cpc, è un atto recettizio, il che significa che produrrà i suoi effetti nel momento in cui il convenuto (soggetto destinatario) ne verrà a conoscenza; lo stesso si può dire della sentenza, la quale produrrà i suoi effetti dal momento in cui verrà depositata in cancelleria, anche se i termini per l’impugnazione della stessa inizieranno a decorrere quando le parti saranno messe a conoscenza della sua esistenza.
A tal fine, la legge ha predisposto un procedimento di notificazione assistito da una serie di formalità necessarie per integrare la conoscenza legale dell’atto, ovvero per far si che l’atto pervenga nella sfera di conoscibilità del soggetto destinatario. Incaricato del procedimento di notificazione è l’ufficiale giudiziario, al quale il notificante rivolge apposita istanza (la quale può essere fatta anche verbalmente).
L’ufficiale giudiziario, tuttavia, non si limita ad eseguire il procedimento di notificazione ma è tenuto anche a rendere conto delle modalità con cui concretamente avviene la notifica attraverso la redazione di una relazione di notificazione.
La relazione di notificazione ex art 148 comma 1 cpc deve specificare la persona del destinatario e la sua qualità a ricevere l’atto, il luogo della consegna, indicare le eventuali ricerche effettuate dall’ufficiale giudiziario sulla persona del destinatario e le ragioni dell’irreperibilità di quest’ultimo; da ultimo deve essere datata e sottoscritta dall’ufficiale giudiziario.
Prima di avviare il procedimento di notificazione, l’ufficiale deve verificare la conformità della copia dell’atto da consegnare rispetto all’originale, che verrà restituito al notificante solo al termine del procedimento, con allegata anche la relata di notifica.
Esistono 3 modi principali per effettuare la consegna integrante la notifica:
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Metodo diretto
Prevede che la consegna della copia dell’atto da notificare avvenga direttamente nelle mani proprie del destinatario o dei soggetti abilitati ex lege (consegnatari abilitati) a riceverlo per conto di questo.
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Trasmissione per via postale
Tramite una raccomandata con avviso di ricevimento l’ufficiale giudiziario effettua la notifica. Tuttavia, non è lo stesso ufficiale ad eseguirla materialmente, ma l’ufficio postale di competenza, il quale a sua volta incarica un agente postale. L’agente postale è tenuto a specificare le modalità della consegna tramite delle attestazioni apposte sulla documentazione postale. Questo metodo è ammesso ex art 149 comma 1 cpc, salvo che la legge non disponga altrimenti.
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Trasmissione in via telematica
La notifica avviene tramite un messaggio di posta elettronica certificata avente ad oggetto il documento informatico dell’atto, sottoscritto con firma digitale dall’ufficiale giudiziario.
In questo caso la notifica viene concretamente eseguita dai gestori dei servizi di Pec, ai quali l’ufficiale affida le operazioni di invio e consegna del messaggio di posta elettronica. Ex art 149 bis cpc la relazione di notificazione, sottoscritta con firma digitale dell’ufficiale giudiziario, deve essere sempre allegata al documento da notificare.
Questo metodo si applica ogniqualvolta il soggetto destinatario sia munito di indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o accessibile alle pubbliche amministrazioni.
Tendenzialmente si ricorre alla notifica in via telematica quando si deve consegnare un atto ai difensori delle parti, dal momento che gli avvocati sono obbligati per legge ad avere un indirizzo di posta elettronica certificata e a renderlo pubblico tramite pubblici elenchi.
Il modo ed il luogo della consegna variano a seconda della tipologia di notifica:
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Metodo diretto
È irrilevante il luogo in cui avviene concretamente la consegna: può avvenire ovunque l’ufficiale trovi il soggetto destinatario, purchè sia nella circoscrizione giudiziaria cui è addetto ex art 138 comma 1 cpc.
Nel caso in cui ciò non sia possibile, l’ufficiale giudiziario deve eseguire la notifica in altri luoghi considerati pertinenti ex lege: come l’indirizzo di casa, dell’ufficio o dell’azienda; solo se è sconosciuto il comune di residenza, la notifica può avvenire nel comune della dimora o da ultimo nel comune del domicilio del destinatario. Qualora il destinatario rifiuti di ricevere l’atto, la notifica si intende ugualmente perfezionata.
La consegna può avvenire anche nelle mani di altri soggetti abilitati ex lege a ricevere l’atto per conto del destinatario (consegnatari abilitati ex lege), fra i quali annoveriamo membri familiari, personale addetto alla casa o all’ufficio/azienda, il portiere e perfino il vicino. L’ufficiale giudiziario deve ovviamente dare conto della loro qualità di consegnatari abilitati nella relazione di notificazione.
Tuttavia, nel caso di consegna nelle mani del portiere o del vicino, occorrono 2 ulteriori formalità:
la sottoscrizione di una ricevuta dell’avvenuta consegna e la spedizione di una raccomandata con avviso di ricevimento al destinatario per informarlo dell’avvenuto recapito.
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Metodo postale
Le modalità di esecuzione sono specificate dalla legge 890/1982, le quali vietano che la consegna possa farsi nei confronti del vicino. Qualora infatti non sia possibile consegnare personalmente l’atto al destinatario, si deve inviare una raccomandata con avviso di ricevimento che lo informi del tentato recapito.
Invece, nel caso di irreperibilità di fatto del destinatario ex art 140 cpc, la notifica prevede l’adempimento di 3 formalità:
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Deposito dell’atto presso la casa comunale
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Spedizione di una raccomandata con avviso di ricevimento al destinatario dell’avvenuto deposito
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Affissione di un avviso presso la casa di abitazione/ufficio o azienda del destinatario dell’avvenuto deposito
Nel caso in cui sia l’agente postale a constatare l’irreperibilità del destinatario, viene depositato l’atto presso l’ufficio postale di competenza, dandosene anche qui notizia al destinatario tramite raccomandata con avviso di ricevimento.
Ex art 143 cpc si parla di irreperibilità oggettiva quando il domicilio, la residenza e la dimora sono ignoti o non conoscibili secondo l’ordinaria diligenza; in tali casi, la notifica avviene mediante deposito presso la casa comunale dell’ultima residenza o del comune di nascita. Qualora siano ignoti anche questi, la notifica viene fatta al pubblico ministero e si perfeziona 20 giorni dopo l’avvenuto deposito.
Regole analoghe valgono per gli enti giuridici, per i quali il luogo dell’esecuzione è quello della sede ex art 145 cpc; qualora sia indicato nominativamente il legale rappresentante, la notifica si può fare ove quest’ultimo ha la residenza, dimora o il domicilio.
Il giorno di perfezionamento della notifica rileva per la decorrenza ed il computo dei termini
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Nel metodo diretto il perfezionamento della notifica coincide con la consegna da parte dell’ufficiale giudiziario in mani proprie del destinatario o di altri consegnatari abilitati ex lege
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Nei casi in cui l’atto venga depositato in luoghi che non hanno alcuna relazione di pertinenza materiale con il destinatario (casa comunale o ufficio postale), la notifica si considera avvenuta solo dopo che siano decorsi 10 giorni dalla spedizione della lettera raccomandata con avviso di ricevimento con cui gli è dato avviso dell’avvenuto deposito (periodo di giacenza postale). L’atto resta a disposizione per 6 mesi, salvo che egli provveda al ritiro.
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Il momento di perfezionamento delle notifiche per via telematica avviene quando i gestori dei servizi di Pec rendono disponibile il messaggio di posta elettronica nella casella del destinatario, a prescindere dalla sua apertura e lettura ex art 149 bis comma 3 cpc
Le fasi ed attività del procedimento notificatorio sono sottratte al controllo del notificante, il che potrebbe esporlo a dei pregiudizi nel caso in cui la notifica vada compiuta entro un termine perentorio a pena di decadenza. A tal proposito è stato introdotto il principio della scissione soggettiva del momento perfezionativo della notifica, anche detto del doppio momento perfezionativo della notifica, in base al quale la notifica si perfeziona per il soggetto notificante al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario, mentre per il destinatario nel momento in cui viene a conoscenza dell’atto ex art 149 comma 3 cpc.
Tuttavia il perfezionamento a vantaggio del notificante è solo provvisorio, poiché per consolidarsi occorre il completamento del procedimento notificatorio; se il completamento non avviene per una negligenza dell’organo o per una difficoltà non imputabile al notificante, è suo onere infatti provvedere alla ripresa o alla completa rinnovazione del procedimento.
La provvisoria anticipazione degli effetti della notifica vale soltanto per la salvezza dei termini di decadenza previsti a carico del notificante; per tutti gli altri si presuppone il compimento delle attività necessarie per integrare la legale conoscenza dell’atto.
Notificazioni da eseguire all’estero
Se il destinatario non ha residenza né domicilio né dimora o sede in Italia, la notifica va eseguita nei modi previsti dalle convenzioni internazionali ex art 142 cpc; nell’ambito dell’UE le regole sono fissate dal regolamento CE n 1393/2007.
Notificazioni a cura del difensore
Gli avvocati possono procedere direttamente all’esecuzione delle notifiche (legge 53/1994) degli atti dei processi per i quali operano come difensori, avendo ricevuto procura alle liti, evitando così il ricorso all’ufficiale giudiziario.
Le modalità consentite sono:
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Il metodo diretto, con accesso ai luoghi in cui la consegna va eseguita, possibile solo se il destinatario sia a sua volta un avvocato che sia domiciliatario della controparte
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Il metodo postale
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Il metodo telematico con invio dell’atto in allegato a messaggio trasmesso dall’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore e diretto a soggetto munito di indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi.
La comunicazione è l’atto con cui il cancelliere porta a conoscenza di determinati soggetti atti o fatti del processo, frequentemente dati da provvedimenti del giudice ex art 136 cpc. Il cancelliere procede per dovere d’ufficio alla comunicazione in ogni caso prescritto dalla legge o dal giudice, senza necessità di una richiesta di parte.
La differenza fra notificazione e comunicazione oggi si è affievolita ed è meramente di natura soggettiva: la comunicazione è infatti un atto del cancelliere, mentre l’ufficiale giudiziario opera solo come incaricato della materiale trasmissione.
La comunicazione avviene con biglietto di cancelleria, redatto dallo stesso cancelliere, che lo consegna al destinatario. Al di fuori di questo caso il cancelliere deve provvedere alla trasmissione esclusivamente telematica, cioè tramite messaggio di posta elettronica certificata.
Tale forma di trasmissione è possibile solo se l’indirizzo del destinatario risulta da pubblici elenchi o accessibili alle pubbliche amministrazioni: il presupposto si dà indefettibilmente poiché le comunicazioni del cancelliere sono dirette a liberi professionisti che hanno obbligo per legge di munirsi di indirizzo di posta elettronica certificata e di renderlo pubblico. Gli avvocati hanno infatti l’onere di indicarlo nell’atto introduttivo o di costituzione in giudizio ex art 125 comma 1 cpc; diversamente la parte non munita di difensore (notificazione e comunicazione di atti al contumace) non ha diritto a ricevere comunicazione degli atti del processo ex art 292 comma 3 cpc. Solo se la trasmissione in via telematica non è possibile, il cancelliere può provvedere via telefax o tramite notificazione a cura dell’ufficiale giudiziario ex art 136 comma 3 cpc.
NULLITA’ DEGLI ATTI PROCESSUALI
Quando si parla di atti processuali si fa riferimento a tutti quegli atti compiuti nel processo ma allo stesso tempo produttivi di effetti per il processo stesso.
Tali atti sono dotati di 2 caratteristiche principali:
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hanno natura procedimentale-> poiché si inseriscono nella sequenza procedimentale che va dall’atto iniziale (domanda giudiziale) all’atto finale (sentenza).
Nonostante abbiano una propria funzione nel processo, questi atti sono fra loro coordinati per poter preparare la sentenza finale che verrà emanata dal giudice. Soltanto la sentenza infatti ha un’efficacia esterna al processo ed è dotata di autonomia funzionale, in quanto non richiede il compimento di atti processuali successivi alla sua emanazione.
*esistono inoltre atti processuali aventi natura civilistico-sostanziale, come le transazioni in occasione della conciliazione fra le parti, oppure atti processuali che producono effetti sostanziali ma con rilevanza esterna, come l’effetto interruttivo e sospensivo della domanda rispetto al corso della prescrizione ex art 2945-2943 cc.
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sono atti giuridici in senso stretto-> non si indaga per il compimento di tali atti la volontà del singolo, dal momento che non rilevano come manifestazioni di volontà, ma si richiede esclusivamente la volontarietà dell’atto in sé.
*fanno eccezione gli atti consistenti nel compimento di negozi dispositivi aventi effetti processuali e sostanziali, per i quali si richiede la valida e regolare formazione della volontà del singolo; come nel caso delle transazioni o rinunce ad impugnare la sentenza ex art 329 cpc.
In virtù del principio di strumentalità delle forme ex art 121 cpc, se la legge non prescrive l’adozione di una forma particolare, tali atti possono assumere la forma più idonea al raggiungimento del loro scopo.
Il principio ha evidentemente una portata sistematica, dal momento che evidenzia come la forma non rappresenti un valore aggiunto per l’atto ma semplicemente un mezzo con cui raggiungere lo scopo. Quando si parla quindi di forma degli atti si allude ai mezzi con cui sono compiuti, ovvero alla loro forma contenente.
In generale, la forma contenente degli atti processuali è quella scritta, salvo che la legge non disponga altrimenti; ciò significa che anche quando un atto potrebbe essere compiuto oralmente, di esso si dà redazione scritta tramite inserimento nel processo verbale. Ad esempio, questo è il caso delle domande giudiziali proposte dalle parti difronte al giudice di pace oppure delle istanze di parte fatte fuori udienza.
Sempre in riferimento alla forma degli atti, si aggiungono i requisiti legati al contenuto degli atti, o meglio alla loro forma contenuto o modalità di compimento. Tali sono le disposizioni che impongono che l’interprete ed il testimone prestino giuramento nel processo; oppure le disposizioni che esigono che di determinati atti venga trasmessa conoscenza alle parti tramite deposito in cancelleria (sentenza) o tramite notificazione formale (domanda giudiziale); o ancora le disposizioni che dopo la costituzione in giudizio impongono alle parti di dover ricorrere a modalità telematiche per il deposito di atti in cancelleria e così via.
Sostanzialmente per quanto concerne gli atti iniziali (citazione, comparsa di risposta, ricorso e controricorso) l’art 125 comma 1 cpc dispone un contenuto minimo che deve essere sottoscritto dalla parte o dal difensore, recante l’indicazione dell’ufficio giudiziario, delle parti, dei difensori, del giudice ed infine le ragioni della domanda e delle conclusioni.
Per i processi verbali redatti dal cancelliere, l’art 126 cpc dispone che devono essere indicate le circostanze di tempo e luogo, le singole attività compiute, le persone intervenute e le dichiarazioni fatte.
Le udienze invece sono gestite dal giudice, il quale ne deve redigere processo verbale; nel caso di udienze di discussione delle cause, esse sono pubbliche, ovvero aperte agli interessati.
Infine, l’art 46 cpc stabilisce generalmente per tutti i processi verbali ed atti giudiziari che questi devono essere redatti in modo chiaro e leggibile, in continuazione, senza spazi bianchi e senza alterazioni o abrasioni; eventuali modifiche devono essere fatte in calce all’atto, con nota di richiamo alla parte che si vuole sopprimere o modificare, la quale non deve essere mai cancellata.
L’art 131 cpc elenca varie tipologie di provvedimenti che possono essere emessi dal giudice:
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Sentenza
atto per eccellenza che esprime il potere giurisdizionale e dotata di funzione decisoria. Tramite la sentenza il giudice infatti accoglie o rigetta nel merito la domanda giudiziale proposta, risolvendo così la controversia.
La sentenza è caratterizzata da irretrattabilità ed impugnabilità: dal momento del passaggio in giudicato la sentenza diventa indiscutibile per il giudice e vincolante per le parti, ma può essere sempre impugnata, nei termini fissati ex lege, al fine di ottenerne il riesame dal giudice del grado superiore (è sempre ammesso il ricorso in Cassazione); qualora siano trascorsi i termini fissati ex lege per l’impugnazione, essa può essere soggetta solo ad impugnazioni straordinarie (come la revocazione ex art 395 cpc).
Il contenuto minimo della sentenza è fissato dall’art 135 cpc, il quale prevede, oltre all’intestazione in nome del popolo italiano e della Repubblica italiana, l’indicazione dei nomi delle parti, dei difensori e del giudice; le conclusioni delle parti e del p.m.; la motivazione; il dispositivo inteso come contenuto concreto della statuizione finale del giudice; la sottoscrizione da parte del giudice e la data della sua pubblicazione.
Soltanto infatti dal momento della sua pubblicazione la sentenza acquista giuridica esistenza, ovvero tramite deposito in cancelleria con attribuzione di numero cronologico da parte del cancelliere; fino a quel momento, essa rileva come atto meramente interno e può essere rideliberata.
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Ordinanza
Provvedimento privo di funzione decisoria, emesso su istanza delle parti e reso nel contradditorio fra di esse; caratterizzato da revocabilità e modificabilità, ma non da impugnabilità.
Tradizionalmente tale provvedimento è emesso dal giudice quando la causa è ancora in fase di trattazione ed istruzione. Tuttavia accade spesso che, quando l’ordinanza ha portata ordinatoria, essa tenda a perdere di rilevanza dopo la sua attuazione (= ordinanza che dispone il rinvio della causa ad altra udienza); oppure che tramite ordinanza il giudice si pronunci provvisoriamente sulla causa, anche se poi la questione viene riesaminata con la sentenza finale.
L’ordinanza infatti consente al giudice di pronunciarsi anticipatamente sulla causa nonostante questa sia ancora in fase di trattazione ed istruzione, evitandogli così di dover frammentare il processo in una pluralità di sentenze.
Il contenuto formale dell’ordinanza è fissato dall’art 134 cpc, il quale prevede che debba essere dotata di motivazione succinta e datata e sottoscritta dal giudice che la emette.
Tipici casi di provvedimenti emessi sotto forma di ordinanza sono quelli con cui il giudice ammette o non ammette una prova in giudizio.
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Decreto
Provvedimento di portata amministrativa ed emesso dal giudice per decisioni ufficiose o discrezionali da assumersi al di fuori del contradditorio delle parti; caratterizzato da revocabilità e modificabilità, ma non da impugnabilità.
Non è richiesto che sia motivato. Le questioni da risolversi con decreto sono legate all’organizzazione dell’ufficio giudiziario o allo svolgimento del processo: tali sono i provvedimenti del presidente del tribunale coi quali stabilisce il calendario annuale per le udienze di prima comparizione delle parti oppure i provvedimenti con cui definisce la sezione e la causa cui è addetto quel giudice; o ancora i provvedimenti coi quali autorizza le parti a stare in giudizio personalmente difronte al giudice di pace.
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in virtù del principio di strumentalità delle forme, il giudice, nell’emettere il provvedimento, può scegliere la forma che si rivela più conforme alla funzione oggettiva dell’atto da emettere.
Talvolta accade che vengano ad essere emessi sotto forma di ordinanza o decreto, per esigenze di semplificazione, dei provvedimenti di portata decisoria: ad esempio, nei casi in cui il giudice si pronunci sulla competenza con ordinanza, benchè essa abbia portata decisoria, la quale è impugnabile con regolamento di competenza.
Diverso è il caso in cui il giudice emetta per errore un provvedimento che dovrebbe pronunciare in forma di sentenza con la forma di ordinanza o decreto o viceversa: in tali casi si applica il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, in base al quale non conta il nomen iuris o forma esteriore del provvedimento, ma solo la sua sostanza. Per cui, anche se viene emesso per errore sotto forma di ordinanza un provvedimento di portata decisoria, esso viene tuttavia considerato avente natura di sentenza.
Il fenomeno dell’invalidità degli atti processuali è disciplinato nel codice nel capo intitolato della nullità degli atti processuali; il legislatore processuale non ha richiamato la contrapposizione concettuale propria del diritto sostanziale (nullità – annullabilità), ma ha preferito configurare una particolare nozione della nullità propria del diritto del diritto processuale civile, ovvero una nozione di nullità che ricomprende anche alcuni caratteri propri dell’annullabilità.
Negli articoli da 156 a 162 cpc, dedicati alla disciplina della nullità (e nei quali è in sostanza presupposta la generica nozione della nullità come inidoneità dell’atto a produrre i suoi effetti in conseguenza di un determinato vizio), la nullità è presentata come oggetto di una pronuncia da parte del giudice, in mancanza della quale l’atto processuale produce egualmente i suoi effetti; o meglio come oggetto di una pronuncia che non si limita a rilevare l’inefficacia dell’atto ma che di questa inefficacia è elemento costitutivo.
Pertanto, sotto questo profilo, la tecnica di cui il legislatore si serve parrebbe vicina a quella figura che, nel campo del diritto sostanziale, prende il nome di annullabilità e che si contrappone alla nullità; nel senso che, mentre quest’ultima opera di diritto e può essere oggetto soltanto di una pronuncia di mero accertamento o dichiarativo, l’annullabilità invece rimane priva di conseguenze fino a quando non interviene la pronuncia del giudice, che ha portata costitutiva ed è, in relazione a ciò, detta appunto di annullamento.
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Mentre nel diritto sostanziale la pronuncia di annullamento opera ex nunc (contrapponendosi alla pronuncia dichiarativa della nullità che opera ex tunc in quanto riscontra che l’atto non ha mai prodotto i suoi effetti); nella disciplina degli atti processuali, la pronuncia con la quale il giudice dà atto della nullità opera con efficacia retroattiva, ovvero ex tunc, come un’autentica dichiarazione di nullità.
Si tratta quindi di una pronuncia che, da un lato, come quella di annullamento, è essenziale per l’inefficacia dell’atto, mentre dall’altro dichiara che l’atto non ha mai avuto efficacia, come è proprio della dichiarazione di nullità.
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Questo per dire che gli atti processuali, nonostante i vizi dai quali possono essere afflitti, sono comunque efficaci, sia pure in via precaria, fino a quando una pronuncia del giudice, rilevato il vizio, ne dichiari la nullità, sottraendo loro quell’efficacia che aveva consentito il compimento degli atti successivi nella serie procedimentale.
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La pronuncia determina a posteriori il crollo dell’intera serie.
Disponendo che l’efficacia esiste fino a quando una pronuncia del giudice non abbia dichiarato il contrario, l’ordinamento elimina ogni possibilità di equivoci; mentre stabilendo che la nullità, una volta pronunciata, opera ex tunc e travolge gli atti che dipendono dall’atto nullo e soltanto quelli, l’ordinamento non fa che trarre le più logiche deduzioni dalla strutturazione del processo come serie di atti reciprocamente coordinati nel senso che gli effetti prodotti da un atto entrano a comporre la fattispecie che consente il valido compimento dell’atto successivo e così via fino all’atto finale, dato dalla sentenza.
Come in ogni settore del diritto, anche nel diritto processuale il fenomeno della nullità è determinato da un vizio, ossia dalla mancanza di un requisito nella fattispecie dell’atto di cui si tratta. Perciò il problema consiste nel determinare quali sono i requisiti in mancanza dei quali si dà luogo a nullità.
A tal riguardo, all’art 156 cpc si parla di nullità degli atti alludendo con tale espressione alle ipotesi di nullità formali, ovvero ai vizi attinenti alla forma contenente e al contenuto dei singoli atti, dai quali distinguiamo le invalidità extraformali, dovute alla mancanza di presupposti processuali (come il difetto di giurisdizione e competenza o di capacità delle parti).
In linea teorica, ogni discrepanza dell’atto rispetto al suo modello legale dovrebbe incidere sulla sua validità; ma l’art 156 cpc ai commi 1-2 distingue i casi a seconda della gravità dell’atto:
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comma 1 -> principio di tassatività delle nullità, per cui solo se espressamente previste ex lege si può parlare di nullità degli atti
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comma 2 -> anche in assenza di espressa comminatoria ex lege, l’atto può considerarsi nullo se manca uno dei requisiti indispensabili per il raggiungimento del suo scopo; l’indispensabilità infatti del requisito non rispettato rispetto allo scopo è applicazione del principio di strumentalità delle forme ex art 121 cpc.
Ne consegue quindi che le nullità sono atipiche, ovvero che l’importanza della mancanza di quel presupposto o requisito varia a seconda dell’interpretazione e valutazione del caso; tuttavia, se è prevista un’espressa comminatoria ex lege, l’atto non può non considerarsi nullo.
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Lo scopo dell’attore indica la funzione oggettiva e tipica dell’atto, in base alla quale si può valutare se il requisito mancante può dirsi essenziale o meno.
Ad esempio, l’art 132 cpc prescrive un contenuto minimo della sentenza, tale per cui devono essere indicate le generalità delle parti di causa in funzione di una oggettiva certezza circa il processo in cui è stata resa la sentenza; qualora manchino tali indicazioni, ma la sentenza richiami atti o provvedimenti dai quali risulta l’identità delle parti, essa non può considerarsi nulla, dal momento che quel requisito non si rivela indispensabile rispetto allo scopo di certezza perseguito dalla legge.
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Si tratta di vizi minori dell’atto, fonte di mera irregolarità, non incidenti sull’idoneità dell’atto a produrre i suoi effetti.
Ciò risponde ad un’applicazione del principio di strumentalità delle forme ai fini della sanatoria del vizio ex art 156 comma 3 cpc: la norma esclude infatti che l’atto possa essere dichiarato nullo se ha raggiunto il suo scopo. L’atto risulta quindi astrattamente privo di un requisito indispensabile per il raggiungimento del suo scopo, il quale però può concretamente dirsi egualmente raggiunto.
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Forma di sanatoria di convalidazione oggettiva dell’atto, al fine di consentire alla controparte dell’autore dell’atto di poter correttamente esercitare un potere processuale.
Oppure, l’atto in origine nullo può considerarsi sanato se il destinatario pone in essere un atto che necessariamente presuppone la conoscenza di quello invalidamente notificato. Ad esempio, se il convenuto si costituisce ugualmente in giudizio nonostante la nullità della notifica della citazione; l’art 160 cpc sulla nullità della notificazione fa salva l’applicazione dell’art 156 cpc.
L’atto processuale viziato continua a produrre i suoi effetti, seppure in via precaria, fino a quando non sia sopravvenuta la pronuncia della nullità. Pronuncia da compiersi da parte del giudice difronte al quale pende il processo. A tal proposito, il legislatore ha previsto una disciplina (regime di eccezione di nullità degli atti ex art 157 comma 1 cpc) che fa dipendere la pronuncia della nullità da un’iniziativa di parte, la quale sarebbe interessata al rilievo del vizio e la cui eventuale acquiescenza è indubbiamente segno del fatto che il difetto del requisito non ha pregiudicato lo scopo dell’atto (corollario del principio di strumentalità delle forme). Questa soluzione di principio non esclude la pronuncia della nullità anche d’ufficio, ma la consente nei casi in cui tale nullità non investa solo interessi di parte ma anche l’obbiettiva regolarità del processo.
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Le eccezioni processuali o di rito hanno la funzione di contestare la validità di un atto processuale, facendo sorgere l’onere del giudice di doversi pronunciare su di essi; mentre le eccezioni di merito allegano fatti impeditivi, estintivi o modificativi del diritto dedotto in giudizio dall’attore e possono essere rilevate di regola d’ufficio.
Ad ogni modo, si parla di nullità relative quando vengono sollevate su istanza di parte; mentre si parla di nullità assolute quando vengono rilevate d’ufficio.
Sono nullità relative poiché fatte valere da una specifica parte del processo; ex art 157 comma 2 cpc soltanto la parte nel cui interesse è stabilito il requisito può opporre la nullità dell’atto per la mancanza del requisito stesso, e deve farlo nella prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso. Al comma 3 si specifica poi come la nullità non possa essere opposta dalla parte che vi ha dato causa né da quella che vi ha rinunciato anche tacitamente.
Si parla invece di nullità assolute quando sono rilevabili senza limiti di tempo; ad esempio, nel caso della nullità dell’atto di citazione ex art 164 cpc o di vizi relativi alla costituzione del giudice ex art 158 cpc.
Il fatto che la legge preveda dei limiti temporali, di modalità o di legittimazione nel far valere la nullità, ha un implicito riferimento nella nozione di sanatoria: è infatti chiaro che quando si è creata una situazione per la quale la nullità non può o non può più essere fatta valere, tanto vale riconoscere che essa è come se non esistesse e che pertanto il vizio che sta alla sua base va considerato come eliminato o sanato; più precisamente come se non fosse mai esistito, in virtù dell’efficacia retroattiva, ex tunc, della sanatoria.
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È quindi facile desumere dall’art 157 cpc che le nullità relative sono sanabili, mentre quelle assolute tendenzialmente insanabili, salvo che la legge preveda espressamente la sanatoria.
Alla figura della sanatoria si richiamano indirettamente due norme: da un lato, l’art 158 cpc, che dichiara espressamente insanabile la nullità derivante dai vizi relativi alla costituzione del giudice o all’intervento del p.m., salva la disposizione dell’art 161 cpc; dall’altro, l’art 161 cpc, dedicato alla nullità delle sentenze.
Quando rileva la nullità di un atto, il giudice non deve limitarsi a dichiararla, ma deve disporne la rinnovazione (se possibile), dovendo sempre privilegiare l’esigenza di depurare gli atti del processo dai vizi formali ex art 162 comma 1 cpc.
La nullità formale degli atti non può comportare generalmente la definizione in rito del processo, a differenza dei vizi extraformali (dovuti alla mancanza di presupposti processuali), che se non sanati conducono ad una sentenza di absolutio ab instantia. Se l’atto nullo non è rinnovabile, esso va espunto dalla serie procedimentale ed il processo deve approdare ad una pronuncia di merito; a meno che non si tratti dell’atto introduttivo (atto di citazione), il quale condiziona la validità dell’intero processo al punto da comportare una definizione in rito della causa se la nullità non viene sanata.
Ex art 159 cpc si parla di estensione della nullità degli atti in riferimento alla regola di propagazione, secondo la quale la nullità di un atto del processo non si estende agli atti precedenti, ma a tutti quelli successivi che dipendono dall’atto nullo; ovviamente non a quelli successivi indipendenti.
La nullità di una parte dell’atto non colpisce quindi le altre parti che sono indipendenti: se il vizio impedisce un determinato effetto, l’atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali è idoneo ex art 159 comma 3 cpc (principio di conservazione degli atti processuali); data però la concatenazione funzionale degli atti del processo, di regola essi dipendono da quelli compiuti in precedenza e sono esposti ad essere a loro volta considerati nulli per propagazione. Ad esempio, la sentenza presuppone il valido compimento di tutti gli atti che ne hanno preparato l’emanazione.
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La propagazione non si verifica se gli atti successivi possono considerarsi indipendenti da quello nullo, ovvero nei casi in cui gli atti sono dotati di piena autonomia funzionale.
Ad esempio, gli atti istruttori sono indipendenti e dotati di piena autonomia funzionale, in quanto tendono ciascuno autonomamente a fondare il convincimento del giudice sui fatti di causa.
*eccezione nel caso dell’atto antecedente a quello nullo: ad esempio, l’atto di costituzione del convenuto che ha preceduto l’atto di intervento di un terzo affetto da nullità.
Vi è indipendenza se l’atto rimane privo di rilevanza nello svolgimento del processo. Ad esempio, se si è raccolta una testimonianza nulla ma nella sentenza il giudice non ne tiene conto perché fonda la decisione su fatti diversi da quelli su cui verteva la testimonianza nulla.
Quando rileva la nullità di un atto, il giudice non deve limitarsi a dichiararla, ma deve disporne la rinnovazione (se possibile), dovendo sempre privilegiare l’esigenza di depurare gli atti del processo dai vizi formali ex art 162 comma 1 cpc.
La nullità formale degli atti non può comportare generalmente la definizione in rito del processo, a differenza dei vizi extraformali (dovuti alla mancanza di presupposti processuali), che se non sanati conducono ad una sentenza di absolutio ab instantia. Se l’atto nullo non è rinnovabile, esso va espunto dalla serie procedimentale ed il processo deve approdare ad una pronuncia di merito; a meno che non si tratti dell’atto introduttivo (atto di citazione), il quale condiziona la validità dell’intero processo al punto da comportare una definizione in rito della causa se la nullità non viene sanata.
Nullità della sentenza
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Nullità derivata: essendo l’atto della sentenza conclusivo di tutto il procedimento, la sua validità dipende da tutti gli atti che l’hanno preceduta ed è esposta a subirne i riflessi della loro nullità.
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Nullità della sentenza come atto in sé: nel caso di vizi propri (ad esempio sentenza priva di motivazione).
Originariamente esisteva un apposito rimedio per far valere la nullità delle sentenze: la cd querela nullitatis; tuttavia, la successiva evoluzione della disciplina delle impugnazioni portò ad attribuire alla più ampia delle impugnazioni (l’appello) una portata sempre più generale e più vasta al punto da consentire tale rimedio in caso di erroneità della sentenza o ingiustizia. Allora apparve evidente che, se con l’appello si può contestare gli aspetti più intrinseci del giudizio contenuto nella sentenza, con esso si deve poter far valere anche i suoi difetti estrinseci, ossia la sua nullità.
Questa constatazione sta alla base del fenomeno della scomparsa della querela nullitatis e del suo assorbimento nell’appello; lo stesso fenomeno che, con riguardo alla sentenza di secondo grado, si riproduce nei medesimi termini con l’assorbimento nell’impugnazione alla quale sono assoggettate queste sentenze, ossia il ricorso per Cassazione; lo stesso fenomeno che, sotto un profilo più generale, può esprimersi nella regola o principio secondo il quale i vizi di nullità si convertono in motivi di impugnazione o gravame, assorbendosi in essi.
Questo significa che i vizi di nullità che affliggono la sentenza (sia che investano la sentenza stessa sia che investano atti precedenti che si ripercuotono su di essa) possono essere fatti valere col mezzo di impugnazione che è consentito contro quella sentenza, nel senso che si convertono in un motivo che fonda l’impugnazione. Ed è proprio questa conversione che evidenzia come:
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Non ci sia altro mezzo per far valere la nullità delle sentenze all’infuori del mezzo di impugnazione;
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E che pertanto le modalità proprie della proposizione del mezzo di impugnazione, con i relativi limiti, termini e preclusioni, si ripercuotano sulla stessa possibilità di far valere la nullità;
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Con la conseguenza fondamentale che l’eventuale decadenza dal mezzo di impugnazione, per il mancato rispetto di quelle modalità o di quei termini, dà luogo alla decadenza della stessa rilevabilità del vizio e quindi alla sua sanatoria. La quale sanatoria opera dunque come una sorta di copertura di tutti i vizi non fatti valere con l’impugnazione. Né potrebbe essere altrimenti dal momento che la decadenza dell’impugnazione dà luogo al passaggio in giudicato della sentenza.
La regola della conversione o assorbimento è enunciata dall’art 161 comma 1 cpc, secondo cui “la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi di impugnazione”.
I vizi di nullità devono quindi essere fatti valere all’interno del processo in cui si sono verificati nei limiti temporali previsti per le impugnazioni, escludendo che possano essere fatte valere in una sede diversa. Tutte le nullità possono essere dedotte dalla parte interessata solo proponendo appello o ricorso per cassazione, a seconda che si tratti di sentenza di primo o secondo grado, entro il termine perentorio previsto dalla legge-> onere di impugnazione della sentenza nulla ex art 325-327 cpc (30 gg per l’appello e 60 gg per la Cassazione, non più esercitabili dopo 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza ex art 327 comma 1 cpc). Una volta passata in giudicato, non è più impugnabile in via ordinaria e il vizio perde di rilevanza tanto che, nel passaggio in giudicato della sentenza, si ravvisa una forma di sanatoria delle nullità formali del processo.
! Solo in casi specifici se il vizio è talmente grave da aver impedito alla parte di avere conoscenza del processo e di esercitare i suoi poteri processuali, il termine per l’impugnazione non può decorrere (6 mesi dalla pubblicazione della sentenza ex art 395 cpc) ex art 327 comma 2 c.p.c; questa disposizione non si applica quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa e per nullità della notificazione degli atti di cui all’art 292 (ordinanza che ammette l’interrogatorio, giuramento, comparse contenenti domande nuove o riconvenzionali); il termine quindi per l’impugnazione decorre dal momento in cui egli acquisisca conoscenza legale del processo, restando così sospeso a tempo indeterminato il passaggio in giudicato della sentenza.
Di regola è escluso che la nullità della sentenza passata in giudicato possa essere fatta valere in un processo diverso da quello in cui è stata pronunciata; tuttavia la regola della nullità della sentenza è derogata ex art 161 comma 2 c.p.c nel caso in cui la sentenza sia priva della sottoscrizione del giudice, che il legislatore considera incidente sulla paternità della sentenza, che è un vizio che può essere fatto valere in ogni sede e tempo-> si parla di inesistenza della sentenza (non di nullità).
“La nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso per cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi d’impugnazione.
Questa disposizione non si applica quando la sentenza manca della sottoscrizione del giudice”.
Ciò significa che non si applica la regola di cui al comma 1, ovvero la regola della conversione o dell’assorbimento, dal momento che il vizio di nullità può essere fatto valere anche al di fuori ed oltre le modalità ed i termini propri del mezzo di impugnazione. La parte interessata quindi può far accertare l’inefficacia processuale della sentenza anche esercitando in primo grado una normale azione di accertamento oppure in via di eccezione in qualsiasi processo esecutivo o di cognizione.
La decadenza dal mezzo di impugnazione non implica sanatoria del vizio, il quale dunque è tanto grave ed essenziale da privare dell’efficacia sanante perfino il passaggio in giudicato o da impedire il passaggio in giudicato. La dottrina ricorre quindi alla nozione di inesistenza per indicare una fattispecie priva delle basi essenziali perché possa verificarsi una sanatoria; si tratta di una nozione che indica un vizio insanabile in modo assoluto, ossia non sanabile neppure attraverso l’applicazione della regola della conversione dei vizi di nullità in motivi di gravame.
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Nozione di inesistenza come parametro della gravità del vizio di tutti gli atti del processo (non solo della sentenza).
In questi casi l’impugnazione della sentenza non è necessaria, ma ammissibile se concretamente proposta entro i termini previsti dalla legge, dandosi così la possibilità di una rinnovazione della decisione di merito all’interno dello stesso processo in cui è stata resa, anziché in un processo instaurato ex novo; come diviene necessario se il vizio non è fatto valere nei termini e la sentenza passa formalmente in giudicato -> l’ammissibilità dell’impugnazione conferma la giuridica esistenza della sentenza.
! La sentenza priva di sottoscrizione non è infatti del tutto giuridicamente inesistente, poiché ex art 354 comma 1 cpc è comunque suscettibile di essere impugnata (appello o ricorso in cassazione) ed in seguito al suo annullamento, la decisione di merito può essere rinnovata, rimettendo la causa nel grado in cui la sentenza era stata pronunciata -> rimessione al primo giudice per altri motivi: fuori dei casi previsti ex lege (ragioni di giurisdizione), il giudice d’appello non può rimettere la causa al primo giudice, tranne che dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva, oppure riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contradditorio o non doveva essere estromessa una parte, ovvero dichiari la nullità della sentenza di primo grado a norma dell’art 161 comma 2 cpc. Se il giudice d’appello dichiara la nullità di altri atti compiuti in primo grado, ne ordina, in quanto possibile, la rinnovazione ex art 356 cpc.
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Il caso di vizio di omessa sottoscrizione si dà solo nel caso di mancanza assoluta della sottoscrizione, cioè di sentenza formalmente pubblicata dal cancelliere ma non sottoscritta da alcun magistrato.
Non si ha un vizio di tal genere se vi sono stati solo errori circa l’identità dei magistrati che devono sottoscrivere la sentenza (scambio di firme), che viene sanato dal passaggio in giudicato o, in caso di sentenza collegiale, di mancanza della sottoscrizione del presidente o del giudice estensore. Questi casi vanno considerati di nullità destinati ad essere sanati con il passaggio in giudicato.
Altri casi ricondotti alle ipotesi di inesistenza della sentenza (oltre all’omessa sottoscrizione):
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Caso della sentenza pronunciata da soggetto privo di potere giurisdizionale: sentenza resa a non iudice, ossia pronunciata dal cancelliere o da un magistrato che non ha ancora assunto servizio o che è cessato dal servizio-> inesistenza della sentenza.
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Caso della sentenza pronunciata in assenza dei requisiti per la valida formazione della volontà decisoria: sentenza pronunciata da un numero di magistrati inferiore a quello minimo previsto dalla legge. Ad esempio, pronunciata solo da 2 magistrati a fronte del numero minimo di 3 previsto per la composizione di un organo collegiale.
*Al di fuori di questi, gli errori circa la composizione dell’organo giudicante (ad esempio, ex art 276 comma 1 cpc secondo cui al collegio giudicante devono partecipare gli stessi magistrati che hanno assistito alla discussione della causa) devono considerarsi integranti vizi di nullità assoluta della sentenza, ma non di inesistenza, in quanto rientranti in quella più generale ipotesi dei vizi relativi alla costituzione del giudice, che l’art 158 c.p.c. sottrae alla regola eccezionale dell’art 161 comma 2 , e dunque assoggetta alla deducibilità con i mezzi di impugnazione della sentenza.
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se ne parla in merito ad alcune invalidità della notificazione degli atti (diversi da quelli di nullità ex art 160 cpc), per alludere al fatto che essa è affetta da un vizio talmente grave da non essere suscettibile di sanatoria, potendo solo ex novo essere compiuta. ad esempio, casi di notificazione eseguita in un luogo privo di collegamento con il destinatario (= luogo in cui egli non ha mai avuto la residenza).
Alle ipotesi di inesistenza possono assimilarsi i casi di inefficacia della sentenza: vizi non strettamente formali ma incidenti radicalmente sulla idoneità della sentenza a produrre effetti di giudicato sostanziale e a precludere così, anche se non impugnata, una nuova decisione sul merito in successivi processi.
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Si considerano tali i casi di sentenza inutiliter data perché resa a contradditorio non integro, in violazione dell’art 102 c.p.c. della sentenza resa nei confronti di un soggetto inesistente o della sentenza con dispositivo del tutto assente, incerto o con oggetto impossibile. Quindi, l’inosservanza dell’onere di impugnazione e il passaggio in giudicato della sentenza non possono sanare la sua radicale inidoneità a produrre effetti e si giustifica la loro assimilazione ai casi di inesistenza.
TERMINI PROCESSUALI
Per assicurare che il processo si svolga ordinatamente e proceda verso lo scopo della pronuncia della decisione finale, la legge assoggetta le attività delle parti a termini che implicano vincoli di tempo per il loro compimento ex art 152 comma 1 cpc:
“I termini per il compimento degli atti del processo sono stabiliti dalla legge; possono essere stabiliti dal giudice anche a pena di decadenza, soltanto se la legge lo permette espressamente.
I termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori.”
Esistono varie tipologie di termini:
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Termini legali: previsti direttamente dalla legge (= termine di 10 gg per la costituzione dell’attore prevista ex art 165 c.p.c )
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Termini giudiziali: fissati dal giudice solo se la legge lo consente espressamente (= il termine per l’integrazione del contradditorio nel litisconsorzio necessario ex art 102 c.p.c. “se la decisione deve pronunciarsi in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo. Se questo è promosso da alcune o contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito”).
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Termini acceleratorii/finali: sono diretti ad assicurare che l’atto processuale sia compiuto non oltre un certo lasso di tempo (= ex art 165 cpc costituzione dell’attore non oltre 10 gg, ergo entro 10 gg)
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Termini dilatori/iniziali: diretti ad assicurare che l’attività si svolga non prima di un certo momento, volendo salvaguardare l’esigenza che trascorra un intervallo di tempo minimo fra 2 attività. (= intervallo di 90 gg che deve decorrere fra la notifica dell’atto di citazione al convenuto e la prima udienza ex art 163 bis c.c.; si tratta di un termine dilatorio teso a garantire al convenuto di godere di un tempo minimo per poter predisporre le proprie difese)
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Termini perentori: alla loro scadenza consegue la decadenza dal potere processuale di compiere l’atto, tanto che non possono essere prorogati o abbreviati dal giudice neppure se vi è accordo fra le parti. Ex art 153 comma 1 cpc “I termini perentori non possono essere abbreviati o prorogati, nemmeno sull’accordo delle parti. La parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”.
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Termini ordinatori: caso opposto al perentorio; può essere prorogato o abbreviato dal giudice, anche d’ufficio, purchè ciò avvenga prima della scadenza. Ex art 152 comma 2 cpc “I termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori”.
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La differenza fra i 2 termini (perentorio- ordinatorio) parrebbe consistere nella prorogabilità prima della scadenza: tendenzialmente l’inosservanza di un termine ordinatorio non comporta alcuna estinzione o decadenza, se non a seguito di una valutazione discrezionale del giudice, ma solo delle conseguenze svantaggiose venutasi a creare con la decorrenza del termine (ergo, oneri ulteriori che rendono più gravoso l’esercizio del potere).
Ad esempio, considerando il termine di 10 gg imposti all’attore per la costituzione in giudizio, si ricava dagli art 171 e 307 c.p.c. comma 1 che alla scadenza di tale termine non consegue l’impossibilità dell’utile costituzione, la quale l’attore può ancora compiere infatti sino alla prima udienza, se il convenuto si è tempestivamente costituito; oppure, in mancanza, notificando un atto di riassunzione della causa entro un termine di 3 mesi.
Parimenti, se il giudice ha ordinato di notificare l’atto di impugnazione della sentenza ai litisconsorti facoltativi ex art 332 cpc entro un determinato termine (previsto dall’art 325-327 cpc), il mancato rispetto del termine non determina alcuna decadenza a carico della parte onerata, ma solo la sospensione del processo per il tempo previsto dalla legge.
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La sanzione della decadenza si applica non in ragione della scadenza di un termine temporale perentorio, ma in ragione dell’avvenuto superamento di una fase processuale che la legge indica come limite oltre il quale l’atto non può più essere compiuto validamente.
Ad esempio, la proposizione del regolamento di giurisdizione non è soggetta ad uno specifico termine, ma esso non può essere proposto oltre il momento in cui il giudice ha deciso la causa ex art 41 comma 1 cpc.
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Si parla di preclusione e non di decadenza (la distinzione appare terminologica dal momento che entrambe sono soggette alla medesima disciplina).
Ex art 155 comma 2 c.p.c se la durata del termine è fissata in mesi o anni, si osserva il calendario comune e non contano i giorni di cui i mesi o gli anni sono composti. Ad esempio, se un termine è di 6 mesi e decorre dal 30 settembre, esso verrà a scadere nell’ultimo giorno del sesto mese successivo, ossia il 31 marzo.
Per i termini a giorni, vale la regola per cui non si computa il giorno iniziale (dies a quo) mentre si computa il giorno finale (dies ad quem) ex art 155 comma 1 cpc e per i termini ad ore si escludono le ore iniziali.
Ad esempio, se i 30 gg decorrono dal 30 aprile, questo giorno non si computa e il termine verrà a scadere il 30 maggio, che sarà l’ultimo giorno utile per il compimento dell’atto.
Se la legge precisa che il termine debba intendersi come libero, come è sovente nel caso dei termini dilatori, non vanno computati allora né il giorno iniziale né finale (ovvero non prima di un certo momento).
Ad esempio, il termine dilatorio di 90 gg fra la notifica della citazione e la data della prima udienza è qualificato come libero dalla legge e dunque decorre dal giorno successivo alla notifica e viene a scadere il giorno prima della data d’udienza in modo da garantire che esso sia un intervallo effettivo di 90 gg.
Termini perentori progressivi sono da calcolarsi in avanti, mentre i termini a ritroso da calcolarsi come periodo massimo che deve trascorrere prima di una certa data come momento ultimo per compiere l’atto.
Ad esempio, un termine a ritroso è quello stabilito dalla legge per la tempestiva costituzione del convenuto che deve avvenire non oltre 20 gg prima della data della prima udienza. La distinzione rileva perché in questi casi vale come dies a quo (data dell’udienza che non si computa) il giorno più lontano nel tempo e come dies ad quem di scadenza il giorno più vicino (ventesimo giorno antecedente all’udienza).
I giorni festivi non hanno rilevanza se sono interni alla durata del termine (= i giorni di domenica interi ad un termine di 30 gg). Se il giorno festivo coincide con la scadenza finale essa è prorogata di diritto al giorno successivo non festivo. Il decorso dei termini processuali è sospeso di diritto dal 1 al 31 agosto di ciascun anno-> sospensione feriale dei termini: se un termine in avanti dovesse scadere durante il periodo feriale non si computano i giorni compresi in tale periodo e il termine riprende a decorrere dal 1° settembre, andando solo i giorni successivi a tale data ad aggiungersi a quelli decorsi prima del 1° agosto. Se invece un termine in avanti iniziasse a decorrere durante il periodo feriale, il suo dies a quo viene direttamente rinviato il 1° settembre.
I termini perentori non possono essere prorogati e la loro scadenza determina l’applicazione della sanzione della decadenza, rendendo invalido l’atto compiuto dopo tale momento.
Soccorre la possibilità della rimessione in termini ex art 153 comma 2 c.p.c.: “la parte che dimostra di essere incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini, che concederà la rimessione sulla base della prova dell’impedimento addotto dalla parte”.
DOMANDA GIUDIZIALE
Il diritto di azione si esercita in giudizio tramite l’atto giuridico noto come domanda giudiziale, con cui l’attore individua il diritto sostanziale per cui la tutela è richiesta ed il soggetto convenuto contro cui è diretta. Di domanda giudiziale il codice parla all’art 99 cpc che menziona il principio della domanda: “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre la domanda al giudice competente”.
L’atto della domanda assume forma esteriore diversa a seconda dei tipi di processo:
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Nel rito ordinario di cognizione la forma è quella dell’atto di citazione (art 163 c.p.c.): contiene oltre all’esposizione della domanda anche l’indicazione degli elementi necessari per la concreta citazione in giudizio del convenuto (vocatio in ius).
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Nei riti speciali si adotta la forma del ricorso, come nel processo del lavoro art 414 c.p.c. e nel rito sommario di cognizione.
*Se la domanda giudiziale è proposta nell’ambito di un processo già pendente, in questi casi la forma con cui si propone è semplificata rispetto alla citazione o al ricorso.
La funzione della domanda è di far sorgere il dovere decisorio del giudice e di fissare l’oggetto del giudizio (thema decidendum) che ne delimita l’estensione. Ex art 112 c.p.c. il giudice si deve pronunciare su tutta la domanda, ma non oltre i limiti di essa (principio della corrispondenza fra chiesto-pronunciato).
La violazione del dovere decisorio determina il vizio di “omissione di pronuncia”; ad esempio, se il giudice omette di decidere su una voce dei danni richiesta dall’attore.
La violazione dell’art 112 cpc può dar luogo al vizio di ultrapetizione; ad esempio, se il giudice attribuisce all’attore più di quanto richiesto. Oppure di extrapetizione, ad esempio, se il giudice si pronuncia su un diritto diverso da quello fatto valere.
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Essenziale funzione della domanda è individuare il diritto su cui si chiede la pronuncia di merito, nel senso che il giudice deve decidere sul diritto fatto valere, ma non su diritti diversi o ulteriori.
La fissazione dell’oggetto del giudizio determina un vincolo anche per l’attore, poiché esso è tendenzialmente immutabile e non è consentito nel corso del processo introdurre domande nuove o sostituire una domanda diversa a quella inizialmente proposta, se non nei limiti espressamente consentiti dalla legge.
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L’effetto principale della domanda giudiziale è di determinare la pendenza del processo e di far sorgere il dovere decisorio del giudice
A questo effetto principale si accostano alcuni effetti ulteriori detti secondari, di natura processuale e sostanziale, i quali rispondono all’esigenza di evitare che la durata del processo possa risolversi in un danno per l’attore.
Effetti processuali della domanda:
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Prevenzione assicura che un eventuale processo, avente il medesimo oggetto, instaurato successivamente alla proposizione della domanda vada eliminato per litispendenza ex art 39 comma 1 c.p.c. e che la riunione vada disposta avanti al giudice di quello iniziato per prima.
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Irrilevanza ex art 5 c.p.c. “la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente ed allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo” (perpetuatio iurisdictionis et competentiae)
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Possibilità ex art 110 c.p.c. che, venuta meno una parte dopo l’inizio del processo, possa proseguire nei confronti dei suoi successori universali con conservazione dell’efficacia di tutti gli atti già compiuti
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Estensione dell’efficacia di giudicato della sentenza ai successori a titolo particolare di una delle parti del processo ex art 111 c.p.c. , in caso di acquisti avvenuti dopo la proposizione della domanda giudiziale (successione nel processo).
Gli effetti processuali sono accomunati dal fatto di non incidere sul contenuto di merito della decisione, ma solo sull’applicazione delle norme processuali, evitando che l’attore possa essere pregiudicato da eventi sopravvenuti alla proposizione della domanda.
Effetti sostanziali della domanda giudiziale:
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Neutralizzazione dei pregiudizi o degli inconvenienti cui l’attore è esposto per il solo fatto di doversi servire del processo per la tutela del suo diritto.
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Evitando che la domanda possa essere rigettata nel merito in virtù di eventi che si verificano nel corso del processo.
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Assicurando che la decisione di accoglimento nel merito possa tutelare l’attore come se fosse emessa al momento della proposizione della domanda.
Alcuni di questi effetti hanno portata conservativa, ossia valgono ad impedire che il diritto dell’attore sia esposto a fatti estintivi che potrebbero maturare durante lo svolgimento del processo; tra cui il più importante è l’effetto della domanda rispetto al corso della prescrizione.
La domanda giudiziale è atto positivo di esercizio del diritto, essa vale ad interrompere la prescrizione ed, in virtù dell’interruzione, il termine ricomincia a decorrere da capo, ossia “s’inizia un nuovo periodo di prescrizione” ex art 2945 c.c. -> effetto interruttivo. L’art 2943 c.c. comma 1 “la prescrizione è interrotta dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio e dalla domanda proposta nel corso di un giudizio”.
Al fine di evitare che, pur riprendendo ex novo a decorrere, il termine possa comunque maturare nel corso del processo, alla domanda spetta anche un effetto sospensivo ex art 2945 c.c. comma 2 “la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”.
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La sfera giuridica dell’attore è protetta dall’efficacia interruttiva della domanda, che non solo fa decorrere da capo il termine, ma ne paralizza la decorrenza sino al momento del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio.
Per l’esercizio di alcuni diritti, specie quelli potestativi, a fronte di esigenze di certezza, vi sono leggi che pongono brevi e perentori termini di decadenza ex art 2964 c.c.: “Quando un diritto deve esercitarsi entro un dato termine sotto pena di decadenza, non si applicano le norme relative all’interruzione della prescrizione. Del pari non si applicano le norme che si riferiscono alla sospensione, salvo che sia disposto altrimenti”.
In casi diversi la domanda produce effetti sostanziali accrescitivi, ossia che non si limitano a proteggere il diritto esercitato rispetto ad eventi estintivi, ma hanno la funzione di anticipare l’efficacia della sentenza di merito favorevole all’attore al momento della proposizione della domanda, attribuendogli delle utilità che presupporrebbero il previo accoglimento della domanda.
Rientra in tale categoria l’effetto che in materia di diritti relativi a beni immobili è prodotto dalla trascrizione della domanda nei registi immobiliari (art 445 cc): grazie alla trascrizione della domanda la posizione dell’attore assume una sfera di prevalenza sostanziale rispetto ai terzi subacquirenti, maggiore di quella che sarebbe assicurata dalle norme del c.c.
Ad esempio, nel caso di un’azione di risoluzione per inadempimento o di annullamento per vizi della volontà di un contratto ad effetti reali, l’accoglimento di tali azioni determina la caducazione del contratto e il ritrasferimento in favore dell’attore del diritto che aveva alienato al convenuto, con il contratto ad effetti reali risolto o annullato ed il diritto alla restituzione del bene alienato; tale effetto della restituzione non opera se il bene è stato nel frattempo alienato ad altri.
Ex art 1458 comma 2 c.c. la risoluzione pur avendo effetto retroattivo fra le parti non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in un momento antecedente; e la prevalenza dell’annullamento rispetto ai terzi acquirenti è limitata poiché assicurata dall’art 1445 c.c. solo verso coloro che acquistano in mala fede o a titolo gratuito, risultando non pregiudicati i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede.
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La registrazione della domanda in materia immobiliare assicura la retroattività degli effetti sostanziali della sentenza, di modo che l’acquisto del terzo (se trascritto dopo la trascrizione della domanda) sia trattato come se fosse stato compiuto dopo il passaggio in giudicato della sentenza
ex art 2652 c.p.c. se la domanda di risoluzione o annullamento è trascritta prima della trascrizione degli atti di acquisto dei terzi, la sentenza che l’accoglie sarà sempre opponibile a loro e sarà prevalente, travolgendo il loro acquisto come se fosse avvenuto dopo la pronuncia.
In questo senso la trascrizione della domanda risolve il conflitto fra attore- terzi aventi causa allargando la sfera di prevalenza sostanziale della posizione dell’attore, poiché diversamente non sarebbe opponibile ai terzi, ma solo a quelli in mala fede o a titolo gratuito.
La trascrizione della domanda garantisce all’attore una misura di prevalenza più ampia di quella che sarebbe assicurata dalle regole comuni del c.c., per questo si dice che ha una portata accrescitiva.
SPESE PROCESSUALI
Il processo è fonte di spese processuali consistenti, da un lato, in oneri da versarsi a titolo di imposizione fiscale nei confronti dello Stato per le prestazioni e servizi resi da organi di giustizia o pubblici, dall’altro, in compensi ai difensori.
Esistono diversi principi e regole sulla base dei quali operare una ripartizione del carico delle spese processuali, ispirati dal:
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Principio di anticipazione: principio secondo il quale nel corso del processo le parti devono sostenere in via anticipata e provvisoria le spese processuali per il compimento di tutti quegli atti necessari alla dimostrazione delle loro pretese e ai fini della realizzazione dei loro interessi. Tali atti necessari sono indicati dalla legge o dal magistrato.
Ad esempio, la parte che abbia interesse a notificare un atto alla controparte, dovrà sostenere le spese processuali per il servizio reso dall’ufficiale giudiziario nel notificare l’atto; allo stesso modo qualora richieda il rilascio di copie autentiche di un documento che vuole produrre in processo.
Qualora però venga ad essere nominato un consulente tecnico d’ufficio al fine di rendere un servizio utile ad entrambe le parti, in questi casi si ha una equa ripartizione delle spese processuali, delle quali rispondono in via solidale le parti.
Se una parte dimostra tuttavia di essere titolare di un reddito inferiore a quello imposto ex lege, può beneficiare del patrocinio gratuito alle spese dello Stato: in virtù del quale non si applica il principio di anticipazione nei confronti della parte richiedente, ma le spese sono anticipate dall’erario o prenotate a debito. La possibilità di beneficiarne è valutata dal competente consiglio degli avvocati, i quali verificheranno il limite di abbienza (requisiti reddituali) del richiedente e la fondatezza della pretesa che vuole far valere in giudizio o la sua inconsistenza.
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Principio di soccombenza ex art 91 cpc: principio secondo il quale il giudice, a chiusura del processo, condanna la parte soccombente a rifondere per le spese processuali sostenute la parte vittoriosa, comprensive anche dei compensi nei confronti del difensore.
Tale principio è anche noto come regola del victus victori, ove per parte soccombente si intende colui che ha visto rigettata nel merito la sua domanda ed accolta quella della controparte.
*Eccezione rappresentata dal caso di estinzione del processo per inattività: qualora il processo pervenga una pronuncia di mero rito e non possa determinarsi la soccombenza delle parti, in tali casi ciascuna sostiene le spese processuali per gli atti compiuti fino a quel momento ex art 310 comma 4 cpc.
Il principio della soccombenza si fonda su una responsabilità oggettiva: è infatti un comportamento lecito delle parti agire in giudizio per far valere le proprie ragioni o resistere in giudizio per vedere rigettata la domanda della controparte; ma se la parte vittoriosa dovesse farsi carico di tutti i costi economici del processo, ciò comporterebbe una vittoria ingiustamente menomata. Per cui l’oggettività con cui opera la regola della soccombenza è data dal criterio di onnicomprensività: sulla base del quale la parte vittoriosa in un primo grado di processo, nel caso in cui fosse soccombente in quello successivo, è tenuta a rifondere le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio.
Ad esempio, se l’attore risulta vittorioso in primo grado, ma soccombente in appello, ciò comporta un onere nei suoi confronti di dover rifondere la controparte delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio.
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Ex art 92 comma 2 cpc si parla invece di soccombenza reciproca fra le parti in caso di assoluta novità della questione o di mutamenti giurisprudenziali significativi sulle questioni dirimenti, tali per cui il giudice condanna le parti ad una soccombenza reciproca parzialmente o per l’intero oppure non pronuncia alcuna condanna. Parimenti nel caso di accoglimento solo parziale della domanda (ad esempio per una somma inferiore a quella proposta).
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Si tratta di una logica applicazione del principio di soccombenza in relazione all’esito del processo.
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Nel caso di soccombenza di una pluralità di parti, queste risponderanno delle spese processuali in relazione al loro interesse di causa; se vi è un interesse comune, ne risponderanno in via solidale; se invece la sentenza non stabilisce il criterio di ripartizione delle spese e dei danni, queste ne rispondono in quote uguali in virtù di una corresponsabilità estesa all’ammontare delle spese subite dalla parte vittoriosa ex art 97 comma 1 cpc.
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Se il convenuto soccombente è contumace, non è esonerato dall’obbligo di rimborsare le spese processuali della parte vittoriosa; se invece è contumace l’attore vittorioso, non è tenuto a ricevere il rimborso dalla parte soccombente dal momento che non ha partecipato attivamente al processo.
Il giudice ex art 91 comma 1 cpc, a chiusura del processo, pronuncia un provvedimento di condanna della parte soccombente al rimborso delle spese processuali nei confronti di quella vittoriosa. Anche le pronunce di incompetenza devono contenere la condanna al pagamento delle spese processuali.
La condanna alle spese processuali costituisce un autonomo capo della sentenza, tale per cui il soccombente può decidere di impugnarla. La parte tuttavia può anche non impugnare la parte della sentenza che lo ha visto soccombente sulla domanda, ma attaccare solo il capo che liquida le spese a suo carico.
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In caso di rappresentanza processuale, il rappresentante non è condannato al rimborso delle spese processuali, ma solo il rappresentato; in quanto il rappresentante non è parte del processo, ma agisce solamente in nome e per conto della parte rappresentata. Tuttavia, ex art 94 cpc, se sussistono gravi motivi, il giudice può condannare il rappresentante o curatore a rispondere personalmente delle spese processuali o in via solidale con la parte rappresentata o assistita.
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In caso di sostituzione processuale, il sostituto, in quanto parte in senso pieno e formale del processo, è tenuto al rimborso delle spese processuali nei confronti della parte vittoriosa; nonostante sia la sfera giuridica sostanziale del sostituito ad essere pregiudicata dall’emanazione di una sentenza sfavorevole.
Il principio della soccombenza è attenuato dalla compensazione, sulla base della quale ciascuna parte sopporta in via definitiva le spese processuali; escludendo l’applicazione del principio di soccombenza. Ex art 92 cpc la compensazione è prevista quando:
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Il giudice esclude dal rimborso le spese anticipate dalla parte vittoriosa per singoli atti, le quali risultino eccessive o superflue; ad esempio, le spese sostenute per la traduzione di atti che risulta superflua per la decisione della causa o la nomina di una pluralità di difensori inopportuna alla luce della natura/complessità della causa. Indipendentemente dalla soccombenza, può quindi condannare una parte al rimborso delle spese che per trasgressione al dovere di lealtà e probità (art 88 cpc) essa ha causata all’altra parte.
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Se vi è stata soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti (art 92 comma 2 cpc), il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero. Se le parti si sono conciliate, le spese si intendono compensate, salvo che le parti stesse abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione.
Con la riforma operata dal d.lgs. 132/2014 la compensazione per giusti motivi, rimessa evidentemente ad una discrezionalità del giudice, è stata al contrario prevista solamente nelle ipotesi tassativamente indicate al comma 2 dell’art 92 cpc: ovvero in caso di assoluta novità della questione o di mutamento giurisprudenziale sulle questioni dirimenti.
Il temperamento del principio della soccombenza è determinato da un criterio di causalità, in virtù del quale si tiene conto della complessiva condotta della parte che abbia provocato il processo. In questi casi la parte vittoriosa si vede negato il rimborso a fronte della violazione di principi di etica del processo ex art 88 cpc ed è, al contrario, quest’ultima condannata al rimborso delle spese della parte sconfitta.
Ciò accade ad esempio quando la parte, pur vittoriosa, abbia consapevolmente allegato un fatto inesistente provocando spese per il compimento di attività istruttoria, che possono allora essere poste a suo carico. Oppure il giudice condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal comma 2 dell’art 92 cpc (soccombenza reciproca).
Ex art 96 cpc si parla infine di responsabilità aggravata per lite temeraria quando il giudice condanna una delle parti, che abbia agito in mala fede e colpa grave nel processo, a rimborsare le spese processuali nei confronti della controparte e al risarcimento dei danni sofferti dopo il processo ex art 2043 cc.
Ex art 96 commi 1-2 cpc si ha responsabilità aggravata quando:
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Una parte abbia dovuto agire e resistere in un giudizio dal quale è uscita vittoriosa. In tali casi il requisito soggettivo è rigoroso, per cui occorre dimostrare la mala fede o colpa grave della controparte; la quale, ad esempio, abbia colpevolmente ignorato l’esistenza di una norma che fondava pienamente le ragioni della parte vittoriosa.
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Il diritto per il quale era stata avviata esecuzione forzata viene ad essere dichiarato inesistente in un grado successivo del processo. In tali casi il requisito soggettivo è attenuato, dal momento che basta dimostrare la negligenza o imprudenza della parte nell’aver proceduto all’esecuzione. Occorre che la soccombenza del litigante temerario consegua ad una decisione di merito e non di rito, poiché la norma parla di una pronuncia che accerta l’inesistenza del diritto per il quale si è proceduto all’esecuzione forzata.
In entrambe le ipotesi la condanna al risarcimento dei danni non può essere chiesta in separato in giudizio e deve essere pronunciata dallo stesso giudice che definisce la causa a sfavore del litigante temerario o imprudente. La condanna è emessa solo su istanza di parte e presuppone che l’istante dia prova dell’esistenza del pregiudizio subito, anche se la misura del danno può essere poi liquidata d’ufficio dal giudice.
Con la riforma infatti operata dalla legge 69/2009 è stato introdotto il comma 3 dell’art 96 cpc, in virtù del quale il giudice può condannare anche d’ufficio la parte responsabile per lite temeraria al pagamento di una somma equitativamente determinata, a prescindere dalla dimostrazione del danno. Si tratta di una condanna non risarcitoria, ma afflittivo – sanzionatoria.